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FRANCESCO M. PASSARO

In prima media venni sospeso per una settimana. Assieme ad altri ragazzi, oggi famosi capiclan decaduti o detenuti, gettammo banchi e cattedra dall’undicesimo piano dell’edificio scolastico... Si schiantarono sui rifiuti ammassati in strada e per fortuna risparmiarono i pedoni. Ecco l’apice della mia carriera teppistica inaugurata coi primi passi, le prime parole. Ero un bambino svogliato, fazioso e poco socievole. Parlavo soltanto in dialetto e mai venivo capito dai grandi. Rompevo gli oggetti senza motivo, non prestavo ascolto a raccomandazioni e rimproveri, facevo di testa mia. Temevo l’abbandono, tremavo all’idea che i miei genitori morissero lasciandomi solo. Maceravo pensieri e incubi terribili consumando notti insonne. Di giorno vagavo con gli scugnizzi in via Vergini, uno slargo folcloristico del centro di Napoli, è lì che sono nato e cresciuto. Un “paradiso abitato da diavoli”, recita un detto medioevale rispolverato da Benedetto Croce, un angolo vivace e contraddittorio del rione Sanità. Quando a capodanno sparavano i fuochi d’artificio e si udivano detonazioni spaventose correvo atterrito per casa col terrore che crollasse il palazzo. Mi calmavo soltanto quando mamma mi prendeva in braccio e mi baciava trasmettendomi tutto il suo calore. Comunque, il mio rapporto con la scrittura è nato sotto i peggiori auspici. A scuola ero per esempio molto lento col dettato e quando gli altri avevano già consegnato il quaderno alla maestra io ero ancora in alto mare. Non leggevo né mostravo particolari interessi culturali. Alle scuole medie ho cominciato non so come a scrivere poesie. Al liceo classico firmavo lunghissimi temi che raggiungevano a stento la sufficienza. Ai miei sedici anni mamma è morta e tutto è cambiato… La scrittura è per me divenuta strumento di catarsi, come una seduta psicanalitica, il modo di ricompensare le persone care e gli eventi che mi hanno toccato dal punto di vista emotivo. In ogni pagina riversavo infatti debolezze, sentimenti, ricordi, pensieri imprigionati nella mente, cercando di dare forma al magma d’impressioni che si agitava nel profondo. Scintilla che si è poi trasformata in fiamma, fuoco, infine in incendio… Da allora sento la scrittura ardere dentro costante come la brace. Il primo testo creativo risale ai venticinque anni. Scrissi una novella alla fidanzata, che ora è mia moglie. Mi sono poi cimentato in soggetti cinematografici e sceneggiature, collegando la passione per la narrativa a quella per il cinema, poi mi sono concentrato sui romanzi. Non ho seguito piani didattici né incomprensibili forme di addestramento stilistico. Antonio Tabucchi affermava che scrittori si nasce, non credeva nelle scuole di scrittura creativa… E aveva ragione. Jack London, Erri De Luca, Niccolò Ammaniti non hanno frequentato corsi per diventare narratori e questo conferma l’idea che la scrittura è un’esigenza, una necessità oppure un destino, non una qualifica, un diploma. Almeno nel mio caso, non si tratta di un impulso controllabile. Quando scrivo entro talmente nelle situazioni che salto dalla sedia o addirittura piango per l’emozione. L’ispirazione nasce dal cortocircuito dell’indefinita amalgama di realtà, vissuto e fantasia circostanti con eventi predominanti che incidono sulla produzione creativa… La morte di mia madre, il tema dell’abbandono, il dolore… Ho molto amato i grandi narratori dell’Ottocento e del Novecento, su tutti Fedor Dostoevskij. Fine pensatore, minuzioso descrittore, psicanalista ante-litteram, genio artistico e stilista della parola… Stimo i Fratelli Karamazov come capolavoro assoluto della letteratura contemporanea. È la narrazione di un parricidio, un fenomenale affresco di personaggi alla ricerca della salvezza esistenziale e spirituale, probabilmente l’apice letterario dell’autore russo. Alle sue spalle colloco Franz Kafka, Nikolaj Gogol’, Anton Checov, Ivan Turgenev, Lev Tolstoj, Michail Bulgacov, Thomas Mann, Georges Simenon, Isaac Singer, Italo Calvino, Josè Saramago… E riconosco l’influenza di Sandor Marai, Stefan Zweig, Niccolò Ammaniti e Gianrico Carofiglio. Il mio stile viene appunto da anni e anni di letture, anche ad alta voce, e da una ricerca personale votata alla semplicità. Credo che la letteratura possa correggere il percorso di un individuo, educare alla solitudine, alla coscienza, alla tolleranza. Per questo paragono spesso la scrittura al viaggio. Senza l’audacia di partire, andare oltre, è impossibile capire tante cose. Ci sono istanti in cui è necessario cambiare rotta anche se per un piccolo lasso di tempo. Stanziare diventa logorante, deleterio, bisogna volare altrove per conoscere se stessi. I viaggi comportano arricchimento esistenziale e culturale, lo sradicamento necessario dal tessuto sociale che permette la vera crescita interiore. L’evoluzione personale è possibile solo a partire dal confronto, superando il provincialismo, l’intolleranza, la paura dell’altro. Tutte cose che ho imparato in giro per l’Europa, in Sud America, in Africa, Australia e Thailandia. Ora sogno di volare in Tibet, mangiare coi monaci buddisti esaminando le giornate, i loro respiri, gli atteggiamenti, godere del clima secco e rigido, dei silenzi, del suono cantilenante delle preghiere dei tibetani

 
     
     
 
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